Liguria. Curare il territorio come si cura un organismo. E agire davvero in ottica di prevenzione, non solo a parole ma con investimenti importanti e scelte drastiche che “non possono più essere un tabù” nei casi più gravi. È questa la chiave per la lotta al dissesto idrogeologico secondo Guido Paliaga, presidente della Sigea Liguria (società italiana di geologia ambientale), che ha lavorato a progetti specifici sul Parco di Portofino e sul tracciato dell’autostrada A10. Lo abbiamo interpellato all’indomani dell’ennesima ondata di maltempo che ha lasciato dietro di sé conseguenze pesanti, tra cui un uomo ancora disperso ad Arenzano e un’alluvione in Val Bormida come non si vedeva da trent’anni.
Paliaga, una delle immagini più impressionanti di questi giorni è quella di Arenzano: un piccolo rio, che normalmente scorre in un tubo sotto la strada, trasformato in un fiume in piena che travolge tutto. È possibile intervenire per evitarlo?
L’approccio dovrebbe essere quello della cura. Come noi dovremmo prenderci cura della nostra salute, occorre monitorare il territorio e conoscere bene le dinamiche che lo riguardano, in maniera da capire dove possono accadere fenomeni di questa gravità. Sappiamo bene che intensità di pioggia elevate, legate a temporali autorigeneranti, producono accumuli enormi in aree di solito localizzate. Quello che è più complesso è valutare esattamente dove. Sappiamo però che tutta la Liguria è esposta a questi fenomeni. Attraverso il monitoraggio, ad esempio con dati satellitari e droni, possiamo valutare dove le acque tendono a concentrarsi con maggiore violenza, dove sono le aree di maggiore instabilità che possono produrre materiali trascinati insieme ai torrenti (debris flow) o frane a sviluppo rapido.
Di cosa si tratta?
Sono frane superficiali, che interessano di solito il terreno a non più di due metri dalla superficie, e sono composte da materiali sciolti, suolo e coperture detritiche. Quando piove improvvisamente, questo materiale diventa un fluido che cola verso valle a velocità altissime, parliamo di 6-8 metri al secondo. Anche in presenza di volumi ridotti, l’energia cinetica che si sviluppa è elevatissima. E possono saturare la capacità di trasporto del reticolo idrografico.
E si possono fermare?
Prima di tutto bisogna studiare il territorio per capire dove è possibile che si sviluppino, dove possono innescarsi, dove possono colpire e se c’è qualcosa esposto a un potenziale impatto. Dopodiché si valuta dove e come intervenire. Ad esempio, dato che spesso una causa sono i terrazzamenti abbandonati, il primo elemento è recuperarli e renderli capaci di drenare bene l’acqua piovana. Il ripristino della vegetazione è un altro fattore importante. Se tutte queste attività di ingegneria naturalistica non sono sufficienti, allora si interviene con misure di tipo passivo: si intercettano questi materiali con particolari reti metalliche poste nelle zone in cui il flusso può essere incanalato. Oppure si possono realizzare vasche di sedimentazione che intercettano i materiali prima di una tombinatura. O ancora, intercettare con briglie selettive i materiali flottanti, cioè i tronchi, che hanno un effetto devastante perché, mescolati ai detriti, si mettono di traverso e producono un effetto diga che può far collassare i ponti. Tutte queste misure sono fattibili e spesso funzionano in sinergia tra loro, ma prima bisogna studiare dove attuarle. Per questo dico che il monitoraggio è decisivo.
E le risorse necessarie?
Costa sicuramente meno rispetto al risarcimento dei danni per ciò che succede dopo. Prevenire conviene sempre. Se riparare costa dieci volte di più, sorge il dubbio che qualcuno possa avere interesse a pagare dieci anziché uno. E comunque una vita umana non si ripaga con nulla.
Lei parla insomma di piccoli interventi diffusi, di ingegneria naturalistica, però se una costruzione si trova quasi dentro un corso d’acqua forse il problema è un altro…
Abbiamo visto anche cos’è successo in Val Bormida: quelle sono aree in cui si sa che il torrente può esondare. Occorre che la popolazione abbia una forte consapevolezza. L’evento di Arenzano è talmente rapido che non lascia la possibilità di scappare e quasi non ci si rende conto di cosa sta accadendo. Però è chiaro che le situazioni di maggior rischio possono necessitare di una delocalizzazione.
Ma i costi rischiano di essere davvero insostenibili.
Sono scelte che vanno prese a livello politico. Il ricercatore dice: qui c’è il rischio, occorrono soluzioni, in ultima analisi si prende in considerazione una potenziale delocalizzazione, ma solo ed esclusivamente di concerto con chi vive nei territori interessati ed è esposto al rischio. Non può essere una scelta imposta, ma condivisa. In Olanda è stato attuato un enorme progetto di delocalizzazione di intere fattorie con costi enormi: si può fare, serve la volontà politica. Ma la delocalizzazione non può essere un tabù. I politici parlano di fare prevenzione ma spesso non sanno cosa significa. Fare prevenzione vuol dire mettere i soldi per ridurre il rischio dove so che è elevato. E lo riduco o eliminando l’esposizione al rischio, cioè delocalizzando, o cercando di mettere in atto interventi che vanno studiati luogo per luogo.
Molti cittadini ritengono che all’origine degli eventi alluvionali ci siano la mancata pulizia dei torrenti, anche a causa delle proteste ambientaliste, e l’abbandono del territorio. Quanto c’è di vero in queste considerazioni?
Ovviamente è un discorso qualunquista e non tecnico. Le situazioni non sono tutte uguali. In termini generali la vegetazione nei corsi d’acqua ha un effetto positivo perché rallenta il flusso. I materiali trasportati dai torrenti vanno in mare e concorrono a ridurre l’erosione delle coste. Di per sé l’effetto di questo fenomeno è positivo. Dopodiché è chiaro che, quando si assiste a un’intensità di pioggia straordinaria, il materiale solido finisce per ostruire le tombinature. Il punto non è tanto togliere detriti dai torrenti, perché in quel modo la velocità di trasporto sarà ancora maggiore. Quello che dobbiamo fare è ridurre il più possibile l’apporto di materiale solido dai versanti. È questo che provoca il sovralluvionamento.
E quindi torniamo agli interventi di cui parlavamo poco fa.
Il fatto è che un buon ambiente naturale in equilibrio è più resiliente di un ambiente fuori equilibrio a causa dell’azione dell’uomo. Il sistema deve riadattarsi a questi squilibri, ma lo fa coi suoi tempi e modalità, magari provocando dissesti e fenomeni erosivi. Le soluzioni non solo semplici e la risposta spesso non ci piace.