Musicare e comporre un’opera lirica nel 2024 (anno pucciniano, tra l’altro) potrebbe apparire impresa per certi versi velleitaria: tanto più che l’argomento prescelto è il processo di Savona del 1927, intentato a Parri e Rosselli e agli epigoni della fuga di Turati (con Pertini) in Corsica.
Titolo “L’ombra di Pertini” : in quel momento, infatti, il futuro presidente della Repubblica è giudicato in contumacia assieme all’anziano leader socialista rifugiato a Parigi.
Impresa quella di Giovanni D’Aquila (musica), Emanuela Abbadessa (libretto) ed Elisabetta Courir (regista della “prima” al Teatro Chiabrera di Savona) resa ancora più ardua dalla comparazione con il celebre lavoro teatrale messo in scena nel febbraio del 1965 da Vico Faggi e Luigi Squarzina dal titolo “Il Processo di Savona”.
Non disponiamo in questa sede della competenza necessaria per valutare il risultato del lavoro di D’Aquila e Abbadessa anche se ci è apparso di notevole livello complessivo.
Il punto che si intendeva sollevare in questa sede riguarda il come appare nell’opera la figura del magistrato chiamato a giudicare Parri, Rosselli e gli altri protagonisti dell’avventurosa fuga per via mare da Savona alla Corsica.
Lo scenario storico è quello della prima fase del fascismo – regime nel post-delitto Matteotti e dell’avvento delle cosiddette “leggi fascistissime” che avevano tramutato l’avventura di Mussolini e soci in una feroce dittatura dopo che per qualche anni liberali e cattolici avevano cullato l’illusione di far rientrare nell’alveo quella masnada che si era impadronita del governo con la marcia su Roma, complice la monarchia.
Il dilemma del giudice rappresenta l’architrave della rappresentazione dell’ “Ombra di Pertini” (nella realtà il collegio giudicante era composto da 3 magistrati: Sarno, Donadu, Melinossi).
La figura del giudice domina soprattutto la conclusione dell’opera ( 11-12 settembre 1927- “Il quarto e il quinto giorno”) stretto nella sua coscienza tra l’applicare la legge oppure adeguarsi alla logica fascista del Tribunale Speciale che esordiva proprio in quel 1927 e avrebbe condannato Antonio Gramsci (deputato in carica) a 20 anni di reclusione e Umberto Terracini (futuro firmatario della Costituzione Repubblicana) a 22, assieme a gran parte del gruppo dirigente dell’allora PCd’I.
Il “Giudice” della finzione operistica è chiaro nella sua determinazione quando stabilisce che “Nel Tribunale Speciale giustizia non c’è” e la scelta è quella dell’applicazione della legge ordinaria, derubricando i reati minori e infliggendo miti pena agli imputati, deludendo così la canea fascistoide che pure era stata ben presente nell’ambito del processo.
Determinanti, in quest’esito (ci riferiamo, in questo caso, alla realtà del 1927) le arringhe degli avvocati, in particolare quella di un giovane avvocato di Savona Vittorio Luzzati che poi è stato uno dei protagonisti dell’antifascismo e in seguito, nel dopoguerra, un importante esponente del PSI e dello PSIUP; per un lungo periodo vice-sindaco della Città.
L’opera ha reso bene il clima nel quale si svolse l’ultimo processo politico semi-libero nell’Italia Fascista, non dimenticando in questa sommaria ricostruzione il successivo estremo atto compiuto nel 1929 quando al plebiscito voluto dal fascismo per legittimare la dittatura, nell’Italia del Nord si espressero ancora 100.000 voti contrari in gran parte provenienti da lavoratori delle grandi fabbriche.
Tornando all’oggi il coraggio degli autori è reso ancor più evidente nella contingenza dell’attualità: ci troviamo in una fase in cui il governo di destra sta sottoponendo la magistratura a un duro attacco allo scopo di modificarne lo “status” per renderla sostanzialmente dipendente dal Governo limitandone prerogative e caratteristiche proprio sul terreno dell’indipendenza prevista dalla Costituzione e dalla filosofia stessa della democrazia liberale: gli oggetti del contendere sono quelli più delicati dell’oggi come il trattamento dei migranti, la sicurezza dei cittadini che si vorrebbe trasformare in “securitate” mutando la democrazia in “democratura”.
L’opera di D’Aquila e Abbadessa lancia un forte messaggio in questa direzione come riassume “l’Ombra di Pertini” nel canto conclusivo “A Savona quel giorno decise che la giustizia non è di regime”.
Franco Astengo